La Nascita dell’Aeronautica: i Palloni di Osservazione

20160923183845_1

I palloni di osservazione non sono stati impiegati per la prima volta nella grande guerra: già Napoleone utilizzava le mongolfiere durante la campagna d’Egitto, ed erano già di uso comune durante la guerra di secessione.

Nella prima guerra mondiale però i palloni di osservazione avevano un ruolo centrale: dopo i primi mesi di normale guerra di movimento il fronte est si era attestato su una unica linea di trincee che dalla svizzera arrivava fino alla Manica dove la situazione rimase pressoché statica per tutta la guerra che si consumò in un interminabile attrito.

Uno degli elementi fondamentali in questo schema di azione era l’artiglieria: l’artiglieria del tempo era in grado di sparare ad una distanza maggiore di quella visibile da terra; inoltre i la cavalleria aveva perso la sua funzione di osservatore dato che la gittata dei fucili rendeva praticamente impossibile ai fanti avventurarsi verso le linee nemiche come facevano in precedenza. Per queste ragioni, e anche per il fatto che la linea di fronte non si spostava, entrambi i versanti del confitto facevano un uso estensivo dei palloni di osservazione.

Rispetto agli aerei i palloni di osservazione potevano lavorare agilmente da dietro la linea di fronte e comunicare a terra tramite filo: gli aerei non erano ancora quasi mai dotati di radio, dato che fino a quel momento le radio erano molto ingombranti e soprattutto non permettevano di trasmettere voce, ma solo morse. Oltre a quello i palloni potevano stare in aria più tempo.

I palloni però sono un bersaglio evidente e statico, e per questa ragione da quando gli aerei cominciarono a montare armi, i palloni sono diventati il bersaglio più ambito. Naturalmente i palloni venivano difesi con vari metodi, compresa naturalmente la scorta aerea, diventando quindi ben presto un bersaglio molto difficile da colpire, e i pochi che riuscivano ad abbatterne qualcuno erano considerati assi.

Ed è così che i palloni ebbero un ruolo fondamentale nell’inizio dell’aviazione militare.

Il Giornalismo nel Mercato dei Videogiochi

Il giornalismo nel mercato dei videogiochi è un tipo specifico, e abbastanza particolare, di informazione al consumatore. Con il passare degli anni la transizione dal cartaceo all’online che già colpisce la stampa tradizionale ha colpito ancora di più la stampa videoludica, che oramai è quasi completamente migrata online.

Al giornalismo tradizionale e professionale si è accostato anche un altro tipo di giornalismo amatoriale, o semi professionale tramite blog, youtube, twitch e altre piattaforme. Oltre a questo il mercato dei videogiochi – in particolare per PC – si è espanso incredibilmente andando ad includere un numero quasi illimitato di titoli: Steam oggi ha 10.863 titoli completi e 8.822 DLC di vario genere, dal cosmetico alla espansione completa; ogni giorno esce qualcosa: oggi ad esempio sono stati rilasciati solo su Steam 26 titoli (tra cui Virginia) e anche escludendo a priori gli showelware l’idea che un singolo o una piccola redazione riesca a coprire esaustivamente tutti i titoli rilasciati è abbastanza assurda.

Le grosse redazioni però non funzionano, perché l’attenzione del lettore non è scalabile all’infinito, e quindi ciascun giornalista può decidere se concentrare le proprie capacità su un numero ridotto di titoli, o se coprirne in modo approssimativo un numero maggiore.

Abbiamo già quindi una distinzione tra chi si occupa specificatamente ad esempio di un genere, chi cerca di coprire l’eterogeneo mercato dei titoli tripla A, e chi proverà ad avventurarsi nei meandri delle produzioni indie.

Come già detto però di giornalisti professionisti ce ne sono ben pochi, e lo spazio vuoto è stato rimpiazzato per lo più da intrattenitori di vario genere (gente che è brava a parlare, o che è divertente veder giocare) che però sono solitamente meno oggettivi e più appassionati.

I let’s play sono un ottimo modo per valutare un videogioco, se si ha tempo: possono sostituire o addirittura essere meglio di una recensione obiettiva perché ci mostrano come è il gioco veramente (sulla macchina solitamente potenziata di quello che gioca), ma per farsi una idea ci vogliono diverse ore di gameplay; una recensione obiettiva invece può condensare diverse ore di gameplay in una paginetta. Però appunto torniamo all’idea che il giornalista oltre ad essere obiettivo debba anche giocare un numero sufficiente di ore per poi poter fare una recensione obiettiva: per un gioco come Crusader Kings penso occorrano più di 40 ore distribuite in diverse partite.

Anche per questo gli intrattenitori hanno vita più facile: il loro lavoro è oggettivamente più facile, e sono in grado di mantenere l’attenzione degli utenti per più tempo. Una videorecensione richiede 40 ore di gioco + editing, un let’s play ha un rapporto di 1:1 con il tempo giocato + editing.

C’è però un passo successivo, ovvero quando questi intrattenitori si trovano ad avere a che fare con l’hype. Vediamo un esempio

Domande, dubbi, obbiettività da una parte e frenesia fanatica dall’altra.

Vediamo un esempio diverso

Da una parte gli onesti sviluppatori che cercano di presentare (anche attraverso le difficoltà della lingua straniera) il loro prodotto in sviluppo, e dall’altra due intrattenitori da villaggio turistico che non solo non riescono ad essere utili al consumatore facendo domande di un qualche interesse, ma arrivano addirittura a disturbare la visione della presentazione con battutine e cose simili.

Questi due video sono i sintomi di perché sta diventando sempre più difficile fidarsi delle recensioni e delle opinioni, anche ricordandoci che se da una parte ci sono sviluppatori che ci tengono a collaborare con i giornalisti per fornire più informazioni possibili sul titolo in uscita (come quelli della Kalypso del video sotto) ce ne sono altrettanti che approfittano del nuovo panorama del giornalismo videoludico per pompare all’infinito l’hype, e in questo vengono aiutati sia inconsapevolmente dai non professionisti fanatici sovreccitati, sia consapevolmente da quelli che avendo una testata online ed essendo interessati ad attirare visitatori saltano sul treno dell’hype garantendosi centinaia di visite e commenti da parte dei fan a qualunque articolo che monti il vuoto a neve.

La situazione non è delle migliori insomma, ed il giornalismo videoludico è solo la punta dell’iceberg rispetto al resto del giornalismo.

L’Hype

dscf0680
L’attesa: il processo di attendere un videogioco, un film, un libro, o qualunque altra cosa immaginandosi che questo, questa volta sia “il migliore di sempre” è un comportamento umano noto e descritto anche dai nostri poeti classici. Nel mondo contemporaneo però non aspettiamo solo la domenica, e il cosiddetto hype è diventato una vera e propria strategia di marketing.

Teaser, annunci, poster, immagini rubate, interviste: abbiamo visto migliaia di volte questo processo. Tutto è volto a far correre la nostra immaginazione, ma non solo, è anche volto a creare una comunità di base per un determinato prodotto.

Specialmente nel mercato dei videogiochi l’avere una base eccitata e pronta all’acquisto quando si è ancora in fase di sviluppo è molto importante: per prima cosa la comunità è un importante strumento di comunicazione, oltre a questo con prevendite, early access, e kickstarter è anche un metodo per garantirsi il finanziamento necessario per lo sviluppo, soprattutto se si sta parlando di produttori indipendenti.

Il tutto però può scontrarsi con la dura realtà quando il gioco finalmente esce: come appunto dicono il poeta l’attesa del piacere ed essa stessa piacere, e in molti casi è anche più piacevole del prodotto finale. Ed è qua che l’hype si ritorce contro il produttore.

Le strategie di hype funzionano bene la prima volta, già alla seconda il pubblico comincia ad essere scettico, e se usate più e più volte si fa questa fine qui. L’hype però è una strategia dannosa solo per il produttore, mentre solitamente il distributore la passa sempre liscia, soprattutto se è un colosso come Sony nel caso di No Man’s Sky.

Quello che però probabilmente non è chiaro all’acquirente è che ne il produttore, e soprattutto non il distributore hanno alcun interesse a sgonfiare l’hype: al massimo, se stanno pensando sul lungo periodo (ovvero continuare a coltivare una clientela come succede per un gioco online, o per un gioco con molteplici DLC) possono cercare di contenere l’eccitazione generale essendo il più aperti e onesti possibile sul processo di sviluppo del gioco, in particolare nei termini di quello che il gioco contiene e quello che il gioco non contiene.

La funzione di controllo sui processi di hype ricade quindi sui giornalisti del settore, dove per “giornalisti” estendo tranquillamente la definizione un po’ a chiunque si occupi di riportare notizie di un mercato, anche in maniera semiamatoriale (blog, youtube, twitch).

Qui però cominciano i veri problemi, ovvero la qualità dei giornalisti del settore videoludico: di questo però parleremo domani.

Evoluzione del Mercato della Moda

dsc_0545
Ieri abbiamo affrontato una rapida corsa del settore dell’abbigliamento dalla rivoluzione industriale a oggi: come abbiamo visto gli ultimi passaggi sono stai la crescita delle firme come status symbol e come elemento di appartenenza (anni 80-90) e la crescita del fast fashion venduto da brand famosi, ma non firmato in senso stretto. Il fast fashion ha cambiato il concetto di omologazione presente nei vecchi marchi legati a 2 collezioni annuali, al concetto di vestito come espressione di se, grazie alla enorme quantità di capi diversi messi in vendita settimanalmente.

Il fast fashion però vuol anche dire comprare più vestiti del necessario, e conseguentemente produrne di più, produrre più cotone o più fibre sintetiche, e buttare via più vestiti andando ad inflazionare i mercati del terzo mondo.

Naturalmente in questa situazione il mondo della moda si sta interrogando sul reale impatto del fast fashion sia a livello ambientale, che di condizioni lavorative, che di mercato, che di cultura, e sta emergendo naturalmente l’idea opposta: lo slow fashion.

Lo slow fashion naturalmente torna all’idea di qualità al posto di quantità, e quindi prevede di avere meno vestiti ma che possano accompagnarci per più tempo. Ricordiamo che i vestiti vengono ancora buttati in buono stato, per far spazio a nuovi, quindi la qualità non ha particolarmente a che fare con i materiali quanto con il concetto di moda stagionale.

L’idea è avere dei vestiti personalizzati che possano permettere di esprimere se stessi allo stesso modo del fast fashion ma senza rivoluzionare i guardaroba ogni 6 mesi: degli staple insomma.

La chiave è la personalizzazione: in questo ambito comprendono le antiche tecniche di sartoria, naturalmente collegate a metodi produttivi del prodotto iniziale per andare a personalizzare una camicia o una giacca nel modo in cui la preferiamo. Per sono sempre esistiti negozi un po’ in ogni città, per le giacche stanno nascendo diversi servizi online. Allo stesso modo anche l’elettronica ci permette di avere macchine molto abili nel creare personalizzazioni, o in ogni caso, dato che il lavoro sartoriale alla fine è prevalentemente manuale, si tratterà solo di avere operai in grado di fare lavori leggermente diversi ogni volta.

In questo senso può esserci anche un riavvicinamento della produzione verso i paesi consumatori. Allo stesso modo l’idea di personalizzazione ben si sposa con le piccole produzioni artigianali, e in qualche caso anche amatoriali: grazie a internet molti piccoli produttori che non riuscirebbero mai a piazzare il proprio prodotto nei pochi chilometri attorno ai loro atelier, possono incontrare la domanda magari di un acquirente dall’altra parte del mondo. Questo sta creando molte micro aziende nel vestiario specializzate in particolari tipi di prodotto, ad esempio le borse fatte con vele riciclate, o con teli dei camion; oppure il riscoprire le vecchie borse di scuola in pelle.

Son convinto che l’abbigliamento come industria di massa abbia attraversato e superato il punto di diminishing return, e che per forza di cose il passaggio successivo sarà un ritorno al piccolo artigiano… su internet.

Mercati in Continua Evoluzione

dsc_0376
Dalla rivoluzione industriale ad oggi i sistemi di produzione e distribuzione delle merci sono cambiati più volte e con loro anche le nostre abitudini di consumo. In questo lungo periodo i mutamenti economici hanno dato vita a cicli di espansione e recessione sempre più rapidi nei quali vecchie aziende cadono per lasciare il posto a nuove aziende con una idea diversa.

Prendiamo l’industria dell’abbigliamento, una delle prime coinvolte dalla rivoluzione industriale e una di quelle che ha subito più variazioni negli anni. Prima dell’industria tutta la produzione dei vestiti era artigianale, dalla lavorazione, alla tessitura, alla sartoria: oggi tutti questi passaggi sono comunemente effettuati dall’industria.

Servivano molte persone per la raccolta del cotone, e gli Stati Uniti sono arrivati a dividersi per decidere se queste persone potessero o meno essere schiavi, ora – almeno negli Stati Uniti – la produzione del cotone è completamente automatizzata (in India invece la maggior parte del cotone è ancora raccolta a mano). Anche la filatura è passata dall’essere un comparto che impegnava migliaia di operai ad un’industria quasi completamente automatizzata.

Già solo queste due evoluzioni hanno fatto scendere il costo di produzione dei vestiti, ma dato che il mercato era abituato a pagare un certo prezzo la competizione ha spinto verso la pubblicità: la pubblicità nella moda inizialmente riguardava solo il comparto del lusso, ma nel dopoguerra con la crescente classe media, e i baby boomer la pubblicità è arrivata a coinvolgere tutti i giovani che hanno cominciato a pagare di più per un marchio. Parallelamente l’altra metà del mercato, quella che non può vantare particolari marchi, ha cercato di abbassare ulteriormente i costi di produzione andando a spostare la parte più costosa del lavoro, ovvero il confezionamento degli indumenti che è tutt’ora una attività che utilizza parecchio lavoro manuale, nei paesi dove la manodopera costa meno: nell’ordine Korea, poi Bangladesh, poi Cina e India, e Turchia. La possibilità di produrre dall’altra parte del mondo è stata resa possibile grazie alla rivoluzione che nel trasporto navale è stato il container.

Quindi siamo arrivati ad avere un mercato diviso tra abiti di marca e abiti “discount” entrambi prodotti negli stessi posti e negli stessi luoghi: ma con l’aumento dei luoghi di produzione a basso costo e l’aumento della produzione di cotone la corsa verso il basso non era più competitiva e quindi si è creato un mercato di marca a basso costo, il cosiddetto fast fashion (Zara e H&M).

I vestiti a basso costo sono stati, negli anni di crisi, uno dei pochi lussi che ci si poteva concedere, e per questa ragione gli armadi di molte persone si sono riempiti, svuotati, e riempiti di nuovo, con un sacco di vestiti che sono finiti donati ad enti caritatevoli.

Una volta vestiti tutti i poveri locali questa abbondanza di vestiti semi nuovi buttati via è stata spedita nei paesi in via di sviluppo, prevalentemente in Africa: qua ha creato un mercato secondario dove questi vestiti vengono acquistati a peso e venduti per pochi dollari. I mercanti si occupano di selezionare e assortire i negozi, e naturalmente sono nati molti lavori artigiani di sartoria per risistemare questi vestiti usati. Questo naturalmente però ha azzoppato la produzione di vestiti locali, e sta rallentando l’ingresso degli stessi marchi occidentali in molti mercati africani.

Questo equilibrio sta lentamente modificandosi di nuovo: vedremo come nel post di domani.