La Fine delle Macchine Fotografiche Compatte

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Puntuali dopo l’annuncio di un nuovo cellulare da parte di Apple o Samsung arrivano gli articoli che elogiano la rivoluzionaria qualità della macchina fotografica integrata sul nuovo telefono: in queste articoli quasi certamente si dirà che questo nuovo modello decreterà la fine delle macchine fotografiche compatte.

Cosa sono le macchine fotografiche compatte

Le Macchine Fotografiche compatte hanno due caratteristiche fondamentali: la prima – come dice il nome – è essere ridotte in ingombro e peso; la seconda è essere molto semplici da usare, ovvero essere “punta e scatta”. Anche il costo è un fattore nelle macchine compatte: c’è certamente una fascia di mercato molto economica, o anche estremamente economica, e una fascia di mercato più costosa.

Le mie macchine fotografiche compatte

Nella foto qua sopra puoi vedere le mie macchine fotografiche per questa categoria: questa collezione racconta in modo parziale l’ascesa e il declino del mercato delle compatte.

Partendo da sinistra le prime due macchine sono una Ferrania (sopra) e una Bencini (sotto) degli anni ’70: non le ho mai usate, e le tengo solo per collezione. Queste macchinette erano ulteriormente semplificate perché non usavano un rullino tradizionale (mi rendo conto che le nuove generazioni non hanno idea di cosa sia un rullino tradizionale) ma bensì una cartuccia. Un rullino poteva essere abbastanza complicato da caricare (io però da ragazzo avevo imparato tranquillamente) mentre la cartuccia era un semplice inserisci e chiudi. Questo genere di macchinette non aveva controlli sui tempi, e la messa a fuoco era fissa; la Ferrania ha un minimo di controllo sull’apertura, ma proprio 2 posizioni. La messa a fuoco fissa non permette di far foto ravvicinate (ovvero non si possono fare i selfie) , ma in generale è un buon compromesso che andava bene per chi voleva fare foto senza dover imparare a fotografare. Parlando di prezzo queste macchine fotografiche costavano 5.500 lire, che aggiustate all’inflazione corrispondono a circa 50 €, ma al costo della macchina occorre naturalmente aggiungere il costo della pellicola e dello sviluppo e stampa.

Al centro in alto c’è la mia prima macchina fotografica, che mi ha accompagnato dagli anni ’80 fino a buona parte degli anni ’90: si tratta di una Pentax Pino. Come le precedenti si tratta di una messa a fuoco fissa, che però alloggia una normale pellicola. I tempi non sono regolabili, ma l’apertura può essere regolata spostando due ghiere, la prima rispetto al numero di ASA della pellicola, e la seconda rispetto alle condizioni della luce, o – nel caso dell’utilizzo del flash integrato – della distanza del soggetto. Il flash integrato è alimentato da due batterie stilo che alimentano anche un sensore di troppo buio all’interno del mirino. Provando a premere il pulsante di scatto con condizioni di luce non sono sufficienti si accende una luce rossa. Nella sua semplicità questa macchina fotografica è molto bella e aveva una bella ottica per il tipo di macchina da dare in mano ad un bimbo.

Al centro in basso vediamo una macchina usa e getta: come livello di difficoltà non c’è nulla di più semplice, e come prezzo nulla di più economico. Questo tipo di macchine era venduto dai fotografi, o anche nei negozi di souvenir nei luoghi turistici; una volta finito il rullino lasciavi tutta la macchina al fotografo e ne compravi un’altra. Con 24 + 3 foto, e la semplice idea del mirare e scattare, senza alcuna opzione o controllo, questo tipo di macchina era perfetto per quando si faceva una gita e si voleva scattare qualche foto. Immaginate però cosa vuol dire avere a disposizione solo 27 fotografie, invece che un numero alto, o infinito (a patto di cancellare quelle venute male) come rende possibile il digitale.

A destra in alto c’è la mia prima macchina digitale: una Casio QV 100. Con una “alta” risoluzione di 640×480, una memoria di 4 megabyte che conteneva un massimo di 64 foto, un sensore particolarmente aberrante verso il blu, senza flash, e con 4 batterie stilo come alimentazione si può capire bene come questi modelli non furono immediatamente in grado di rimpiazzare l’analogico. Il prezzo di questa macchina nel 1995 rapportato ad oggi supererebbe i 1.000 euro. Ciò nonostante il non dover sviluppare e stampare le foto, il poter vedere immediatamente il risultato sul piccolo monitor, e l’obiettivo che può essere girato per farsi finalmente i selfie hanno decretato un immediato successo di queste nuove tecnologie rendendo evidente che il problema fosse solo il prezzo.

L’ultima macchina fotografica è una Finepix che mi ha accompagnato almeno fino a capodanno del 2006. Ed è qua che la storia si interrompe: il 9 gennaio del 2007 infatti Steve Jobs presenta l’iPhone e per la prima volta l’idea di uno smartphone per le masse – o anche l’idea stessa dello smartphone – si affaccia sul mercato. Da quel momento, quando è possibile avere integrata nel telefono una decente macchina fotografica allora immediatamente l’idea stessa delle compatte diventa inutile. Perché può anche essere vero che le compatte al tempo degli smartphone hanno continuato ad avere una qualità fotografica migliore, ma come dicevamo all’inizio la qualità fotografica non è un fattore in questo mercato: quello che conta è la compattezza e la semplicità. Le macchine fotografiche delle degli smartphone sono estremamente semplici da usare, e in quanto a compattezza nulla batte l’idea di non dover portarsi in giro un gingillo di più.

Per questa ragione non penso che il nuovo iPhone abbia distrutto il mercato delle compatte, perché già ci aveva pensato il primo.

La Fine delle Cuffiette Bianche

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Con la presentazione dell’iPhone 7 Apple cerca di mandare in pensione i cavi degli auricolari: le cuffie del nuovo telefono di casa Apple saranno infatti senza filo.

Il filo delle cuffie una quindicina di anni fa è stato uno dei motivi del successo di iPod: l’iPod quando presentato era un lettore molto simile agli altri presenti sul mercato, Steve Jobs quando lo ha presentato ha spiegato molto bene come il prodotto poteva essere perfetto per il mercato, ma non era un enorme balzo in avanti rispetto alla concorrenza.

Una delle sue caratteristiche fondamentali inoltre era lo stare in tasca: ora, dal punto di vista pratico è perfetto per l’utente, ma l’addetto marketing sa che ha a che fare con un prodotto nascosto, che quindi era molto più difficile da promuovere attraverso la riprova sociale.

Qui Apple ha avuto un’idea geniale: nel 2001 il colore standard dei cavi delle cuffie era il nero: iPhone uscì con le cuffie e i cavi bianchi. In questo modo anche se il prodotto stava in tasca il proprietario era comunque riconoscibile nella massa perché era l’unico con le cuffiette bianche, e quando il numero di persone con le cuffiette bianche è cominciato ad aumentare era chiaro a tutti che iPod stava conquistando il mercato.

Apple nel 2001 era un grande marchio, ma era ancora alternativo, e fu proprio il successo di iPod ad esporlo alla massa in tutto il mondo. Fu l’iPod con i suoi cavetti bianchi ad aprire la strada verso iTunes Music Store, e poi verso iPhone, e iPad.

Oggi Apple fa un altro passo e taglia questi cavi: sarà una scelta azzeccata o sarà un altro firewire?

I Giochi Paralimpici di Rio

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Ieri notte, con una emozionante cerimonia di apertura, sono iniziati a Rio i quindicesimi giochi paralimpici.

In queste competizioni per due settimane si sfideranno atleti raggruppati per tipo di disabilità. I giochi paralimpici si disputano dal lontano 1960: in realtà è dal 1948 che esistono competizioni internazionali per paraplegici, ma solo con le olimpiadi di Roma si è pensato di abbinarli ai giochi Olimpici.

Inizialmente nati come evento sportivo per i veterani mutilati nella seconda guerra mondiale, i giochi paralimpici hanno assunto un significato diverso aprendosi anche a diversi tipi di disabilità. Penso siano state però le olimpiadi di Londra la prima vera occasione in cui questi giochi hanno avuto un successo mediatico, grazie al successo di pubblico, alla copertura della BBC, e probabilmente anche ai social media.

L’importanza dei giochi paralimpici è quella di metterci di fronte alla diversità che riempie la nostra società scardinando l’abituale idea di compassione mista ad emarginazione, ma celebrando e riconoscendo come parimente degni questi atleti portabandiera dei propri paesi.

In una società funzionante infatti chiunque deve essere messo in condizione di poter esprimere il proprio potenziale, e questi atleti sono in campo per ricordarci di non sottovalutare mai il potenziale dei disabili. Certamente potranno non essere in tutti i casi autosufficienti, ma chi di noi è autosufficiente al di fuori della società? La tecnologia sta rendendo possibile l’impossibile aumentando giorno dopo giorno il potenziale umano, e questo vantaggio deve essere a favore di tutta la società, e non solo della piccola totalmente perfetta.

Questi giochi ci ricordano ancora meglio come il potenziale umano per quanto frutto dell’impegno personale possa essere espresso solo se non ci si mette i bastoni tra le ruote, e solo se ci si tratta da pari con pari dignità.

Il Vittimismo e l’Illusione del Controllo

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Una delle più grosse illusioni della mente umana è il controllo: anche supponendo di essere completamente in controllo delle nostre azioni e decisioni, ovvero di non essere influenzati da elementi esterni quali ad esempio le tattiche psicologiche di persuasione, o anche semplicemente dal meteo, non saremo comunque in controllo di tutto quello che è esterno da noi.

In alcuni casi possiamo affidarci, in altri fare delle previsioni, prendere delle precauzioni basate su dati statistici, ma tutte queste meccaniche funzionano su larga scala ma non ci mettono al riparo dai casi particolari. Il nostro controllo insomma è sempre molto limitato, così come è limitato il nostro effetto, soprattutto sui sistemi complessi.

Una delle contromisure psicologiche che adottiamo per illuderci che di avere ancora pieno controllo è dare la colpa a qualche agente esterno che ci ha preso di mira.

Dall’insegnante a scuola, al sistema economico capitalista, al complotto massone, fino alle scie chimiche, ai Templari, fino al malocchio e alle divinità, la lista di giustificazioni fantasiose che possiamo addurre per i nostri fallimenti, o per le nostre sfortune.

Incolpare qualcun altro ci fa sentire in controllo, in equilibrio, e ci assolve dai nostri peccati.

C’è però un aspetto paradossale della questione: possiamo anche essere vittime di noi stessi. Se prendiamo la colpa per qualcosa ma non accettiamo quello che ci è successo, e se non proviamo a correggere le cause che ci hanno messo in quella situazione allora poco importa se non abbiamo trovato altro capro espiatorio che noi stessi.

Occorre quindi abbracciare la nostra condizione incerta e muoversi sempre per migliorarsi, dobbiamo scendere a patti con l’idea che il mondo non stia tessendo trame contro di noi e, nel caso riscontrassimo le ragioni delle nostre sfortune in noi stessi, allora dovremo semplicemente cambiare.

Le Diete e la Paura di Cambiare

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In vista della prova costume ci si mette tutti a dieta, poi si passano le vacanze a gozzovigliare e a settembre rieccoci a pensare alla palestra e alla dieta.

La dieta – nel modo in cui viene intesa oggi – è una modifica temporanea delle proprie abitudini alimentari volta a perdere peso. In questa definizione si trova la ragione per cui le diete non funzionano, o meglio, funzionano solo per breve tempo fino a quando non si recupera peso.

Se si sta guadagnando rapidamente peso è sintomo che c’è qualcosa che non va, e se si decide di affrontare questo problema in modo intelligente allora bisogna riconoscere che occorre una qualche forma di cambiamento a lungo termine: invece è molto più facile optare per un cambiamento radicale a breve termine, ovvero un non cambiamento.

Il cambiamento ci spaventa molto più della dieta: ognuno di noi in questo momento ha trovato una sorta di equilibro, può essere un equilibrio statico o dinamico, ma è un modo in cui si sente sufficientemente confortevole in ogni singolo giorno che passa. Dico che ognuno è in equilibrio perché chi non è in equilibrio sta già muovendosi verso radicali cambiamenti alla ricerca di un nuovo equilibrio.

Questo equilibrio non è solo la nostra zona sicura e confortevole, ma è anche la nostra identità. Non è vero che nel corso della vita le persone rimangono sempre uguali: l’io bambino era molto diverso dall’io studente, e l’io attuale è molto diverso dall’io di 10 anni fa. La nostra identità varia lentamente o bruscamente insieme al nostro equilibrio.

Ognuno di noi però tiene molto alla propria identità, e sente il bisogno istintivo di essere coerente verso la propria identità: la coerenza è infatti uno dei requisiti per la vita sociale, che prevede il non dover rivalutare costantemente le persone che si anno attorno. La coerenza è istintiva perché l’umano è un animale sociale.

Ed è questa la ragione di fondo per cui ci spaventa cambiare una cattiva abitudine, anche quando riconosciamo che è una cattiva abitudine: questa è la ragione per cui preferiamo soluzioni veloci e temporanee, a cambiamenti graduali ma di lungo respiro.

Questo vale per le persone, ma vale anche per i gruppi di persone: anche una azienda preferisce fare una “dieta” piuttosto che intraprendere un cammino di rinnovamento profondo. Anche le aziende come le persone hanno paura di cambiare, sono convinte che ci sia una virtù nell’equilibrio anche quando questo equilibrio non è altro che un lento declino.

Per questa ragione le aziende spendono un sacco di soldi in consulenti cercando la soluzione rapida e semplice ai problemi superficiali che riscontrano, ma non vanno mai a lavorare sulle cause di questi problemi intraprendendo il cambiamento profondo che questi consulenti suggeriscono.

Siamo governati dalla paura di cambiare e abbiamo paura di cambiare anche i nostri difetti, perché teniamo troppo alla nostra attuale identità per barattarla con una migliore identità per domani.

Non fare la dieta. Cambia la dieta.